martedì 22 luglio 2014

I giovani come vuoti a rendere

Sono giovane, ancora. Trenta si sentono e non accetto ancora l'idea, ma in effetti sono lì e nessuno me li toglie. Inizio a vedere lo stacco con chi è nato otto, dieci, dodici anni dopo di me, ché sì, io sono giovane, ma anche loro lo sono, anche se un po' di più.  Eppure, avendone l'esigenza, mi sento vecchia a voler scrivere questo post, come dicevo esattamente ieri sera ai miei amici, perché mi sembra di essere la nonna saggia che fa il predicozzo al nipote.
Generalizzare è male, allora mi giustificherò dicendo che ciò che penso deriva dalla mia esperienza diretta. Nella mia testa, la teoria che va alla grande, rispetto ai giovani più giovani, è quella delle bottiglie d'acqua con vuoto a rendere.
Prendi una cassa da sei bottiglie di acqua minerale frizzantina, scaricala dal furgoncino che te la consegna, gustala fredda al punto giusto nel momento in cui sei assetato e dopo dieci minuti scordatene. Chi se ne importa se la bottiglia è costata molto, se la qualità era elevata o pessima, se ti capiterà di berla ancora e dovrai decidere se ti era piaciuta o meno. Ciò che conta, dopo la goduria istantanea, è mettere via il vuoto per poi riempirlo di nuovo.
Chi se ne importa se i rapporti fra persone hanno richiesto sacrifici, se ci sono state esperienze condivise, viaggi, emozioni, botte da orbi o amore alla follia. Ciò che conta, dopo la goduria iniziale e a breve termine, è scaricare l'altro e ricominciare da zero con nuove esperienze.
Così, come la bottiglia vuota torna sul furgoncino per un nuovo viaggio, nei rapporti personali la superficialità è di casa. Siamo stati bene? Ci mandiamo affanculo? Pazienza, si ricomincia con qualcun'altro.
In realtà siamo qui di passaggio e l'idea che così giovani, seminino il nulla, mi rattrista.
Il motto, però, sembra essere quello delle vecchie giostre: "Salire signori! Altro giro, altra corsa".

lunedì 7 ottobre 2013

La differenza tra sembrare ed essere

SEMBRARE
Quella sempre brava 
Quella calma e pacifica
Quella che impara in fretta
Quella che la prende con filosofia
Quella sempre sorridente
Quella che, da quando è piccola, "tu sei più matura delle tue coetanee"
Quella che comprende sempre gli altri
Quella sicura di sé

ESSERE
Quella che non riesce sempre a trovare la soluzione del problema, e lo lascia irrisolto
Quella che spacca le porte e lancia gli oggetti quando qualcosa non va
Quella che continua a sognare 
Quella che vuole vivere di parole e  raccontare immagini
Quella che "sì, sono più matura, ma un po' di coccole non hanno mai fatto male a nessuno"
Quella a cui si scalda il cuore, quando trova dall'altra parte la stessa sensibilità 
Quella che le fragilità ha imparato bene a mimetizzarle

lunedì 9 settembre 2013

Belen Rodriguez indossa le collane create da Valentina Viali

Valentina Viali
Vale Viali.
Un nome-cognome brevi, un abbinamento di due V che sembra essere stato creato appositamente per un marchio di accessori originali e giovani, freschi e attuali. V@leVi@li, per l'appunto. Non ho mai fatto tanta pubblicità a un prodotto come in questa occasione. Perché lei, Valentina Viali, la conosco da troppo tempo ormai per credere che si stia montando la testa. Perché abbiamo condiviso tanti sforzi, discorsi e vicende che non si può far finta di niente. E perché, onestamente, le collane, i bracciali e le pochette che crea non passano inosservate, con i loro colori e con la loro verve.
Io e Vale ci conosciamo dal 2003, anno di inizio delle nostre avventure universitarie nel mondo della traduzione, poi del pendolarismo, poi dell'amicizia. Quando ho saputo che Belen Rodriguez ha ricevuto le sue collane per pura casualità, grazie all'amica di un'amica di Vale, e che le ha apprezzate a tal punto di fotografarsi con i lacci e lacciuoli (si fa per scherzare!) al collo, non ho potuto resistere. Sì, perché ho pensato che forse tanti sforzi possono portare a un merito. E che forse, una volta nella vita, chi ce l'ha sempre messa tutta per uscire dal mucchio può sperare che un sogno diventi reale.
Vale, te lo auguro con tutto il cuore.
Collana V@leVi@li


Collana V@leVi@li

Cerchietto V@leVi@li
Ah! Vale è su Facebook, proprio qui .



giovedì 7 marzo 2013

Perché l’idea di democrazia di Grillo è inefficace


La filosofia della mosca incappucciata
Non sono una politologa, ma una semplice appassionata di politica. E sì, mi sono appassionata molto alla vicenda dell’Italia da quando Matteo Renzi ha iniziato a fare capolino e a risvegliare in me quell’istinto di amore patriottico che mi porto dietro da generazioni e che mi porta oggi a seguire alla soglia del patologico i vari Otto e mezzo, Ballarò e Servizio pubblico del caso. Da quando, insomma, il (vecchio) nuovo che avanza ha iniziato a farsi strada. Chiusa la mia parentesi su Matteone nazionale che, ci tenevo a dirlo, è uno dei pochi uomini di cui attualmente mi fido, apro la parentesi sul “peggio che avanza”: Beppe Grillo. Tra i punti principali della sua filosofia, dopo quello di correre in spiaggia a Bibbona incappucciato e con gli occhiali da mosca, svetta l’idea di applicare una democrazia senza delega. Dove tutti, cioè, possono esprimere in assemblee pubbliche, direttamente e con propria favella, il loro punto di vista. Tutti. Con propria favella. Il ché presuppone quanto meno che si abbia un forte senso di rispetto per gli altri e un forte spirito di tolleranza, e poi che siano presenti, come qualità accessorie, la conoscenza dell’ambiente in cui si parla e degli argomenti trattati, e infine la capacità di mettere insieme un discorso sensato e sintetico che attiri l’attenzione del pubblico. Una teoria del tutto sballata quella di togliere la delega, secondo me. Se non altro, impensabile da applicare in Italia.
Ed ecco spiegato il perché attraverso un esempio pratico, reale, vero, semplice, preso dalla gente comune, da fatti banali che non hanno particolare rilevanza sociale o ricadute sulle sorti del mondo: l’organizzazione della cena fra donne per l’8 marzo. Potrei partire dalla conclusione e lasciare alla fantasia lo sviluppo della storia, ma siccome mi è sembrata particolarmente calzante, mi tocca sviscerarla in fasi schematiche.
Situazione di partenza: Noemi, grazie alla tecnologia Internet, invia attraverso il noto sistema di chat Whatsapp un invito a cenare fuori per l’8 marzo a quattro amiche, che per comodità chiameremo amica Gi, amica Fe, amica Su e amica Sa.
Sviluppo 1: amica Gi estende l’invito ad altre quattro sue amiche, e in attesa di sapere il numero definitivo si decide: pizzeria o ristorante cinese?
Sviluppo 2: amica Gi conferma la presenza di altre tre amiche. Amica Fe dice che non ama molto il cinese, ma che, volendo, si adegua. Si inizia a discutere della possibile pizzeria in alternativa al cinese, si decide di optare per soluzioni non troppo lontane dal centro città.
Sviluppo 3: dopo aver trovato un punto di accordo su due probabili pizzerie valide, prima di decidere quale delle due chiamare amica Gi chiede, se non è un problema, di spostarsi in una nuova pizzeria perché offre un menu senza glutine adatto a una delle sue invitate, celiaca. Sembra che tutte siano d’accordo.
Sviluppo 4:
amica Su chiede se non si preferisca piuttosto cucinare a casa dato che sua cugina, da lei invitata in seconda battuta, può mettere a disposizione una bella stanza per starcene comodamente ed economicamente a casa.
Sviluppo 5: si va al voto. Meta preferita, pizzeria. Sia per la comodità di non dover organizzarsi e cucinare, sia perché alcune amiche di amica Gi non hanno voglia di andare a casa di una ragazza che non conoscono.

[Avviso: volete andare avanti nella lettura, o già siete stanchi? Questo è un racconto democratico e non vi mando fuori dalle palle, perciò liberi di scegliere!]

Sviluppo 6: si torna a optare per la pizzeria, ma amica Su espone la problematica di sua cugina, che non può proprio andare a cena fuori per motivi economici, e quindi chiede di voler restare a casa. Si torna ai voti. Il gruppo di amica Gi vuole la pizzeria. Noemi e amica Fe vogliono uscire e propendono per la pizzeria. Amica Su e amica Sa, in quanto sorelle e quindi entrambe cugine della proprietaria di casa/offerente, dicono che resteranno con lei perché ormai l’hanno invitata e sarebbe brutto lasciarla da sola.
Sviluppo 7: amica Gi chiede, infine, in quante si andrà in pizzeria per prenotare. Amica Fe dice che non va in pizzeria perché non conosce bene le amiche di amica Gi e, oltre tutto, queste sono molto più giovani di lei e si sentirebbe un po’ a disagio fra “piccole”. Amica Su e amica Sa sono ferme nella decisione di cenare a casa della cugina. Noemi, per non staccarsi dalle amiche storiche Su e Sa, decide (su richiesta) di seguirle e quindi andrà a cena a casa della cugina proprietaria di casa.

E ora, siore e siori, considerazioni.
- La persona che ha organizzato la serata (Noemi), alla fine non ha avuto potere di decisione.
- La massa più numerosa (Gi e amiche) ha preso una decisione individualmente, affidando la comunicazione ad amica Gi.
- Il soggetto esterno (la cugina con casa) ha influenzato due dei membri indecisi.
- Una delle invitate è uscita dal gruppo.
Cosa manca in questa comunissima espressione di riunione e di democrazia? Semplice: capacità di concertazione e delega finale a una persona incaricata, dopo aver ascoltato, di prendere la soluzione migliore per tutte. L’obiettivo iniziale era trascorrere una serata tutte insieme, il risultato finale è stato una divisione in tre parti delle nove (e ci tengo a sottolineare, solo nove) partecipanti.
Con i vari chiacchiericci che seguono l’episodio.

Come diceva sempre Luigi Muzii, il mio prof della specialistica, in occasioni di riunioni lavorative importanti le decisioni si prendevano sempre alla macchinetta del caffè. E non perché lavorasse con un ammasso di deficienti: semplicemente, perché i membri della riunione erano italiani. E, aggiungo io, abituati a una cultura in cui vince chi strilla di più senza ascoltare.
Tra loro, e anche tra noi, c’è chi ha votato Grillo credendo nell’eliminazione della delega.
Me lo vedo, io, il diciottenne che va in consiglio comunale per dire, magari con uno striscione e con coro di amici a seguito, che a scuola non accendono i termosifoni. E mi vedo anche gli anziani arrabbiati per la pensione minima che si mettono a sbraitare tutti insieme per avere un aumento. O i lavoratori licenziati che sfondano le porte, disperati per il loro futuro. Ma vedo anche il condomino rompiballe che non vuole più le cacche di cane sul marciapiede e il professionista snob che vuole far scansare il barbone dal portone del suo studio perché dà una brutta immagine.

Tutti hanno diritto di esprimere le loro ragioni. Ma delegando qualcuno.

“Troppi galli a canda’, nun ze fa mai giorno”, dicono a Terni.

martedì 8 gennaio 2013

Il potere della bilancia

Da che sono al mondo, non ho memoria di una, dico una sola donna che considerasse la bilancia pesapersone sua amica, tranne nel momento in cui era utile per capire se si sarebbe dovuto -o meno- pagare l'eccesso bagagli all'aeroporto.
Da che sono al mondo, nemmeno io ho mai avuto una bilancia amica e forse ciò è avvenuto anche con ragione rispetto a tante altre ossute del gentil sesso che dicevano di avere la pancia. Ma tant'è.
Crescendo ho iniziato a capire che la fatidica bilancia è un indicatore di noi, non tanto materiale quanto spirituale. Che è possibile instaurare una buona convivenza con lei a patto che siamo felici, apprezzate, amate, realizzate e a patto che noi stesse riusciamo a convincerci che il peso non è la fine del mondo.
Certo: se la natura ci ha concepiti per essere normopeso, il sovrappeso e il sottopeso sono qualcosa in più o in meno, come le plusvalenze o minusvalenze in un'azienda. Il punto centrale, però, è sempre lo stesso, da secoli: vai o non vai bene per la società in cui vivi, dunque sei adatta o meno adatta per la società stessa. I canoni di bellezza sono diversi per epoca, latitudine o longitudine e generalmente prevedono forme che rappresentano l'opposto delle condizioni economiche in cui si vive. Le cicciottine in aree sottosviluppate, le magrissime in occidente dove il benessere abbonda. Forse all'epoca odierna il ritorno alla moda delle pin-up o delle curvy è anch'esso un sintomo di crisi che avanza.
Pochi giorni fa ho letto un articolo del Corriere della Sera che titolava: Pesava 78 chili e adorava le bistecche. Ecco la donna perfetta nel 1912. Elsie Rebecca Scheel, così si chiamava la fortunata americana alta 1 metro e 69, era anche una mente fervida, era appassionata di automobili e di orticoltura ed era attivista e sostenitrice del voto alle donne.
Articolo e proporzioni di Elsie Rebecca Scheel - da Corriere della Sera

Scorrendo l'articolo di Emanuela Di Pasqua mi sono detta che, anche vivendo nel 1912 mi sarebbe mancato qualche chilo per essere perfetta, ma certo avrei avuto dalla mia le bistecche, l'orticoltura e le automobili. Oggi mi rendo conto che pur vivendo in una società che predilige le taglie 40 e che sta lentamente e scetticamente rivalutando le taglie morbide, io nel mio qualcosa in più ci sto bene e quasi bene. Ci sto bene perché mi piace l'immagine curvy, perché sono convinta che chi ha una prima o una seconda di tette non sempre riesce a darsi forma facilmente e perché la sensualità non dipende certo dal metro del sarto o dalla differenza grafica tra la lettera S e la lettera L. Anzi, a giudicarle esteticamente, la forma ad angolo retto della L mi piace anche più degli archi mai perfetti della S. Dico invece che ci sto quasi bene perché il mondo così com'è, almeno nel Bel Paese, non consente di vestirsi bene anche se stai bene (in salute e con te stessa). Siamo il paese delle false L e delle false 5e, il paese della 46 più stretta e dell'impossibilità di trovare agilmente il bottone che si chiude. Non dipende certo dai chiletti in più, semmai dalle fabbriche di abbigliamento che continuano a considerarci magre quando invece, in percentuale totale, magre non siamo. Non tutte, almeno. Per fortuna le scarpe, quelle entrano. Ricordo di un film, famoso e di cui mi sfugge il titolo, di una ragazza che diceva: "Mi sfogo con scarpe e borse perché quelle mi entrano sempre e comunque, il resto no". Ragionamento sbagliato. Cercare, cercare e cercare fino a star ben con sé stesse, questa è la chiave. Offrire uno spettacolo visivo, non necessariamente fisso negli standard, per i nostri occhi e per quelli altrui, ecco il segreto. Sarà un caso che negli scaffali dei saldi di Intimissimi le misure a cui è dedicato addirittura uno spazio comune sono la 1a e la 4a misura? Sarà un caso che le taglie definite "grandi" siano poche e sempre finite? Più che attribuire la colpa al caso, forse dovremmo darla alla cecità della società in cui viviamo. Quella degli abiti di tutte le taglie accessibili a tutti è una politica tanto difficile da adottare quanto è difficile scardinare il concetto, a mio vedere discriminatorio, di quote rosa.
Quello che più importa è capire quando il troppo storpia, in un senso o nell'altro. No al magro eccessivo, no al grasso che toglie il respiro. Ma il resto viviamocelo liberamente e con serenità. Sarò di parte, ok. E allora? I cicciottini sono più dolci e sensibili. Il sorriso è garantito. La femminilità non si trova nella taglia ma in come si indossa un abito, in come ci si rapporta con gli altri, nei gesti, negli atteggiamenti. Che non si imparano, ci sono e basta.
Dalla pagina Facebook Morbida e donna... io!
Con Serena, la collega-amica minuta e dal corpo di ballerina classica se ne parla sempre. Io mi lamento per l'abbondanza, lei per la carenza: guarda quanto sei femmina, io ho un corpo da dodicenne, mi fa lei, sì, ma io ho troppo, un po' di meno non guasterebbe, rispondo io. E penso che alla fine, opposte in fisicità e ognuna a modo proprio, abbiamo accettato l'incontrovertibilità della nostra natura e abbiamo compreso entrambe di avere qualità da competizione pari a quelle della Scheel nel 1912.
In fondo, nel dubbio, sono felice di aver ricevuto le plusvalenze giuste al momento giusto, assieme alla mente vivace e all'ironia che -come dice Beppe Severgnini in Italiani di domani, e lo dice lui- va sempre di pari passo con l'intelligenza.
Autostima, valorizzazione di sé, serenità. Solo così la nostra bilancia potrà dirci sempre "Sei bellissima".

mercoledì 5 dicembre 2012

La vita è un ciclo, ma l'amore ne è alla base

La vita gira, si torna da dove si è partiti. Ma quando c'è l'amore è tutta un'altra storia.
Scrutatrice al seggio delle primarie del centro-sinistra, domenica 2 dicembre 2012 ero seduta al tavolo e controllavo i fatidici albi elettorali delle primarie, per assicurarmi di far votare secondo regolamento. Purtroppo ho visto molti over 50 e troppo pochi giovani, una realtà che fa capire quanto il vero cambiamento, se mai ci sarà, sia ancora distante anni luce.

Sopra ogni politica, però, si è manifestata ancora la più bella delle cose, un grande, grandissimo gesto d'amore.

Due uomini entrano nella stanza a braccetto. Uno ha quasi sessant'anni e aiuta nel deambulare l'altro, suo padre, evidentemente sopra i novanta, che cammina con un bastone a passi piccoli e attenti, con l'andatura prudente di chi, dopo quasi un secolo di vita, sa che è meglio evitare ogni piccolo inciampo. Il figlio si avvicina, porge il suo documento, ritira scheda e matita, poi fa: "Mi dareste qualcosa per far votare lui?", indicando il padre. In quanto membri del seggio, tutti rimaniamo basiti e lo guardiamo con aria dubbiosa: non avendo documenti o tessera elettorale non possiamo farlo votare. "Ma una cosa così, per farlo votare, un foglietto e una penna...". Guardiamo il babbo e capiamo all'istante: lui non può più votare perché a quell'età le condizioni di salute mentale non lo assistono più, ma non ha voluto rinunciare a farlo. Porgo al figlio un pezzo di carta e una biro blu, lui disegna due cerchi vuoti e dà il foglietto e la penna a suo padre, che li prende e gli chiede: "Come devo fare?". "Fai un segno su uno dei due, papà -risponde il figlio- tanto è lo stesso: vanno bene entrambi". "Scrivo oppure faccio una croce?", continua il padre, "Così andrà bene?" "Scegli tu, papà, basta che metti la croce e qui al seggio lo capiscono". E noi, dalla nostra, cerchiamo di dargli istruzioni per rendere la scena più veritiera possibile.
Il figlio imbuca velocemente la sua vera scheda senza farsi notare troppo, poi va dal babbo che ha ancora la scheda in mano, gli chiede se ha scritto, prende la scheda, la piega e la porge a uno scrutatore ringraziandoci tutti ad alta voce. "Abbiamo già fatto?", chiede il padre che ottiene la nostra risposta affermativa arrivata quasi in coro. "Ah! Ci è voluto così poco", fa. "Pensavo fosse una fila lunga e invece ci ho messo proprio un attimo. Grazie tante e arrivederci a tutti!", chiude, poi si volta per uscire ma non si orienta e non trova la porta, quindi suo figlio lo riprende a braccetto e con dolcezza estrema dice: "Da questa parte papà, è questa la porta". Si avviano e salutano di nuovo.

Il papà ha cresciuto il figlio con tanto amore, e oggi gli viene restituito. Il figlio che da piccolo faceva finta di votare perché non sapeva leggere si ritrova oggi a mettere in scena la stessa pantomima, ma all'inverso, con chi gli ha insegnato a tenere la penna in mano. A portarlo con sé anche se avrebbe potuto più facilmente lasciarlo a casa.
Se non è amore questo.

mercoledì 5 settembre 2012

Le agenzie interinali demotivano. Il mondo del lavoro demotiva

Post dettato dalla rabbia, se vogliamo. Dalla sensazione di ingiustizia, anche. Dalla motivazione di trovare qualcosa di decente ormai sfumata, pure.
Nota agenzia interinale appone cartello: "Cercasi per importante azienda impiegata neolaureata in materie umanistiche con forte conoscenza del tessuto sociale cittadino".
Entro, aggiorno il CV.
"Complimenti, hai un bellissimo curriculum, ti sei data da fare", mi fa il tipo all'accoglienza.
"Grazie", gli rispondo, "ma non è mai abbastanza. Oltre ad aggiornare i dati, vorrei candidarmi per questa posizione. Ho visto che cercate neolaureati, io non lo sono, ma rientro ancora, eventualmente, nella fascia d'età dell'apprendistato".
Ricciolone biondo mi guarda con occhi fintamente tristi. "Mi dispiace, sai, noi abbiamo direttive aziendali molto rigide. Il tuo profilo sarebbe perfetto, visto che hai anche esperienza al pubblico, ma sai, non prendiamo persone laureate da più di dodici mesi".
"Scusami", gli dico, "ma qual è il problema? Possiamo fare due chiacchiere e ti dimostro che anche se ho esperienza posso farlo un lavoro da inesperta".
"Mi dispiace", risponde lui, "ma è una posizione interna e dobbiamo rispettare le direttive aziendali. Ti contatteremo di sicuro se ci saranno occasioni di lavoro con le lingue che hai studiato".
Sono stata gentile a non dargli un vaffanculo. Quattro anni di iscrizione da loro e mi avessero fatto una chiamata, una, anche solo per sbaglio. Eppure il mio numero è giusto. Trentamila CV lì dentro, tutti alla rinfusa. Un database che non serve a una cippa lippa. Il ragazzo neodiplomato, entrato prima di me, era lì COL NONNO, a domanda di probabile colloquio lavorativo il giorno successivo rispondeva "Sci, sci, va bbene, domani so' disponibbile", perché avevano già pronto un lavoro per quello per cui ha studiato, le materie elettroniche.
L'hanno promosso, e io sono stata rimandata a settembre.
Quando ero neolaureata cercavano persone con esperienza. Ora che ho esperienza, le aziende di ogni ordine e grado sono in crisi e cercano persone neolaureate da sfruttare fino all'osso. I giornali sono in stato di crisi e ti danno a malapena e in ritardo il rimborso mensile. Questo è il premio per aver avuto, nella vita, il senso di responsabilità di fare le cose da sola, bene e per tempo.
Devi fare quello che ti piace. E poi làureati presto, così hai tempo di fare esperienza. Làureati presto, che fai gavetta. Làureati, che trovi lavoro. Dai, che se esci con i voti alti puoi entrare anche a fare i concorsi. Tanto sei brava, e vedrai che ce la fai. 
Beh, oggi il V-Day lo organizzo io. Sì, perché oggi è il giorno del vaffanculo collettivo a tutti voi famigerati consiglieri della mia vita, e a voi passati datori di lavoro. Se voi consiglieri foste stati un po' più pragmatici, quando io ero ancora troppo stupida per prevedere il futuro, mi avreste detto chiaramente che con le parole si sogna, ma non si mangia. Se voi passati datori di lavoro aveste saputo essere modesti e onesti, anziché pensare al vostro mero gretto interesse, infarcendomi di complimenti per poi mandarmi a casa con un bel calcio in culo e tanti saluti, forse oggi avrei un piccolo briciolo di fiducia in più nel mio domani.

venerdì 17 agosto 2012

Algo

Algo se muere en el alma cuando un amigo se ne va. 

Detto da una persona con cui ho collaborato solo a livello professionale, senza nemmeno incontrarsi mai, e che in quanto a esperienza potrebbe mangiarmi in testa... un briciolo di soddisfazione me lo dà. Quella di avergli probabilmente lasciato qualcosa di buono!